MASSIMO CARRERA, LA BANDIERA ATALANTINA SVENTOLA IN RUSSIA

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STEZZANO – Dall’Atalanta a Mosca, le peregrinazioni nel segno del pallone di uno che ci sa fare. Eccome. Senza per questo atteggiarsi a personaggio: «Il passato lo si vive dentro, i ricordi vanno tenuti nel cassetto. Le dieci maglie che ho indossato devo averle in garage da qualche parte. Non ho mai chiesto una foto per tenerla nell’album. Non sbandiero niente». Eppure c’è una notissima canzone del Bepi che raffigura Massimo Carrera, settebello d’annate pieno sotto le Mura dal 1996 al 2003, come “la Bandéra” per antonomasia. Non che abbia smesso di sventolare dal pennone. Leader della difesa, capitano, chioma bionda al vento, l’aria di chi ne ha passate di cotte e di crude battagliando cogli attaccanti senza scomporsi mai, ipnotizzandoli con gli occhi cerulei, una carriera sulle cotiche erbose lunga ventisei anni: «Io ne aggiungerei un paio, considero il mio esordio sedicenne in Promozione nella Pro Sesto come il vero inizio. Ho smesso a quarantaquattro nella Pro Vercelli, in C2. Un record? Contava solo la passione. Mai fatto caso ai numeri, ho giocato finché il fisico ha retto», esordisce lui, cinquantatreenne (22 aprile ‘64) che dalla maggiore età fino alle scarpette al chiodo ha scritto 773 match (più uno in Nazionale, contro San Marino a Cesena, 19 febbraio ‘92) con 20 gol. Ne dimostra almeno una dozzina di meno, stesso peso forma di quando giocava: «Sto sugli ottantuno circa, grazie a mia moglie. Non vado in palestra perché mi manca la voglia, niente partite fra vecchie glorie perché mi fa male il ginocchio: non mi abbuffo, mi nutro bene e sto lontano dai dolci che nemmeno mi piacciono». Lo chiamavano anche “Marlboro”: «Mezzo pacchetto a far tanto, non mi toglieva il fiato. Adesso fumo meno perché in panchina non si può», ride. L’ex mastino, per vincere da responsabile tecnico, ha dovuto emigrare lontanuccio: «Lo Spartak è la Juve di Russia, come blasone, titoli vinti e tifo. Ma fino ai primi di agosto facevo il collaboratore tecnico per la difesa anche lì: Dmitrij Alenicev ha interrotto il rapporto dopo l’eliminazione ai preliminari di Europa League, il club mi ha chiesto di prendere il suo posto per due partite, prima della pausa per la Nazionale, ma poi mi ha tenuto in sella. Lo scudetto è stato il mio primo vero trofeo in bacheca da allenatore, non è stato male conquistare la Prem’er Liga a sedici anni dalla volta precedente», spiega con nonchalance l’uomo che s’è affrancato dall’ombra mica da poco di Antonio Conte – seguito da Torino, dopo il triennio 2009-2011 da coordinatore tecnico del vivaio, fino al Club Italia – ed è riuscito a centrare il bersaglio grosso: «Il top è lui, dalla preparazione all’attenzione ai dettagli. Non era affatto scontato che vincesse in Inghilterra, anzi. Eppure ha primeggiato anche lì». Da sostituto del comandante e del vice Angelo Alessio, negli anni bianconeri al di là della riga di gesso, un altro record da lustrare in bacheca: «Agosto 2012, ci fu la storia delle squalifiche e mi chiesero di guidare la squadra nell’amichevole di Salerno contro il Malaga. Vinsi la Supercoppa Italiana a Pechino, 4-2 ai supplementari contro il Napoli, poi altre nove partite con altre sei vittorie, senza perdere mai, Champions compresa».

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Da difensore centrale, una gavetta lunga così per conquistarsi i palcoscenici che assomiglia in modo impressionante alla parabola da mister: «Nasco terzino destro ma sulle prime facevo il mediano, il classico 4 che marcava il 10, la mezzala avversaria più pericolosa. Ad Alessandria, C2, stagione 1984/85, si fece male il libero e giocai in mezzo insieme ad Angelo Gregucci che fungeva da stopper». Chissà se all’epoca il Carrera in carriera, cominciando dal basso, aveva visto in controluce nell’Orso grigio del mitico “Moccagatta” l’orso russo dei giorni nostri. Quelli della sua gloria vissuta in prima persona, senza doverla spartire con anima viva. In ogni caso, il primissimo degli incroci con futuri atalantini, nel football della transizione alla modernità: «A Pescara l’anno dopo c’era Gian Piero Gasperini, centrocampista dai piedi buoni. Difficile, col senno di poi, dire se fosse già una sorta di allenatore in campo: i risultati parlano a suo favore. Fu la mia prima esperienza a zona, allora tutti o quasi dietro erano schierati a uomo: allenava Enrico Catuzzi, Giovanni Galeone arrivò proprio quando me ne andai al Bari». In Puglia, insieme a compagni di spogliatoio che sarebbero approdati a Bergamo come Carletto Perrone e Michele Armenise (collaboratore di Stefano Colantuono), il primo ciclo pluriennale (nel 1983/84 era ancora in serie D, a Russi, dopo l’allontanamento da Sesto): «Un quinquennio che considero la rampa di lancio da professionista, perché nel 1989 con Gaetano Salvemini conquistammo la serie A e due anni più tardi mi prese la Juventus». Cioè lo spartiacque verso la grandezza: «Tre stagioni con Giovanni Trapattoni, due con Marcello Lippi. Coppa Uefa nel

‘93, scudetto, Coppa Italia e Supercoppa Italiana nel ‘95, Champions nel ‘96. Fu il classico passaggio dalla vecchia scuola a quella nuova. Per il Trap contava la partita, con Giampiero Ventrone cominciò l’era dei preparatori atletici, fino ad allora una figura secondaria: fu lì che conobbi i mille metri di corsa, roba inedita per gli allenamenti di quei tempi». Una scuola di calcio e di vita: «Il massimo, per chi come me ha sempre fatto il tifo per quella squadra. Si capisce davvero il significato di mentalità vincente, la si acquisisce e ti rimane dentro. Vinsi anche la Coppa dei Campioni, pur senza giocare la finale di Roma con l’Ajax: fu scelto Vierchowod, a 37 anni una roccia col fisico e i mezzi spaventosi di cui disponeva». Con Madama, l’unico aneddoto ridanciano d’una parabola infinita: «Al rientro da un tour di amichevoli per tutta l’Italia, salimmo sul palco allo stadio “Delle Alpi” e interpretammo gli Europe, tra playback e parrucche. Un’idea di Gianluca Vialli, rispolverata dai festeggiamenti del Tricolore con la Sampdoria».

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Quindi il settennato nerazzurro, tra Emiliano Mondonico (retrocessione in B al secondo giro di corsa), Bortolo Mutti, Giovanni Vavassori e Giancarlo Finardi, il condottiero dello sfortunato doppio spareggio con la Reggina nella primavera del 2003: «Bergamo è rimasta casa mia, abito tuttora a Colognola. Da lì in avanti ho sempre fatto avanti e indietro, vedi ultime esperienze col Napoli e il Treviso in B e poi a Vercelli. A proposito, in azzurro non riuscimmo a riguadagnare la massima serie, sotto la presidenza Naldi, poi ci fu il fallimento e l’arrivo di Aurelio de Laurentiis. Che dire? Col Mondo c’erano diversi ultratrentenni, oltre a me Daniele Fortunato e Valter Bonacina, più il primo Pippo Inzaghi, capocannoniere ancora giovanissimo. Col Vava iniziò uno dei periodi d’oro dei giovani promossi dal settore giovanile, la vera fortuna dell’Atalanta come si può constatare dal recente exploit». La Bandéra per antonomasia qui ha parecchi amici, ma non s’è mai candidato alla tolda di comando: «Anche se qualcuno per il dopo Reja aveva fatto il mio nome, ma non c’è mai stato nulla. Ho continuato a fare il secondo occupandomi dell’assetto difensivo, a Mosca come altrove. Ma fa piacere aver vinto da head coach, è stata una cavalcata incredibile». Non importa se in un mondo in qualche modo velato dalla barriera linguistica: «Il mio interprete, Artem Fetissov, traduce anche le emozioni, ma il linguaggio del campo è universale. I miei mi capiscono e sanno ciò che voglio. Alenicev l’avevo avuto come avversario nella Roma e nel Perugia, ci intendevamo bene. Poi c’è Salvatore Bocchetti che sa il russo e mi fa un po’ da tramite, ci sono altri due ex del campionato italiano, Luiz Adriano e Fernando. Il bomber è il nazionale olandese Quincy Promes, tra i russi c’è il nazionale Denis Glushakov. Se m’incazzo in italiano, comunque, mi capiscono al volo». Squilla l’iPhone, è un giornalista russo, che gli manda le news, la rassegna stampa o giù di lì: «Ho un contratto biennale e mi sto divertendo, a giugno ricomincia la preparazione e il 14 luglio c’è la supercoppa col Lokomotiv, il derby di Mosca. Leggo che Mancini sarebbe vicino allo Zenit, quello russo è un calcio che attira». Una parolina per la Dea che gli è rimasta nel cuore: «Se usciamo dal girone di Coppa dei Campioni gli avversari in Europa League potremmo essere noi, ma spero di no. Magari pescano lo Zenit, o il Krasnodar di Igor Shalimov». Altra vecchia volpe dei nostri lidi, ma questa è un’altra storia.

testo: Simone Fornoni

foto: Luca Limoli

 

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