Gli occhiali e il pallone? Un legame già scritto, per via di una delle metafore più abusate al mondo. Per via di quel risultato che nella forma ricorda l’accessorio da vista e che i saggi definiscono l’unico perfetto. Perché quando nessuno incappa in papere e cappelle, finisce giocoforza zero a zero. Ma a Gigi Foppa, per raccontare la sua passione per la sfera magica, tocca partire da un settebello sul groppone mica tanto gradito dalle parti di Bergamo: «Ero a San Siro, l’Inter ce le ha proprio date di santa ragione. Una lezione salutare, visto che qualcuno cominciava a parlare di Champions: siamo bergamaschi, abbiamo il dovere di tenere i piedi per terra. La squadra è da piazzamento Europa League, che è già un sogno. Lavorare e giù la testa, montarsela non fa bene». Il calcio vissuto sottotraccia, senza la lente deformante del livore di parte: «Mai litigato con nessuno in più di quarantacinque anni di stadio. A Milano, già sul sette a uno per loro, ero in un settore pieno di interisti che ci invitavano in segno di scherno a uscire prima per non trovare traffico sull’A4. Alla fine mi sono girato, ho stretto la mano con un sorriso a quello che avrà ripetuto la battuta cento volte e sono stato al gioco, dicendogli che sì, preferivo lasciare lo stadio in anticipo per trovare l’autostrada sgombra».
Anche il negozio nel centro storico di Grassobbio è una specola visiva privilegiata per indossare la seconda pelle: «Quando abbiamo vinto a Napoli ero qui, davanti al mega schermo. Al due a zero di Caldara mi sono messo a urlare, qualche cliente deve avermi preso per matto. Il sabato è sempre pieno così. Allora ho fatto capolino per giustificarmi: “Scusatemi, ma sono atalantino”».
L’amore di una vita, comunque, è datato ben prima e ben al di fuori della bottega: «Sono nato in città, in via Zambonate, poi ci siamo trasferiti a Zanica. Mio papà Virginio fu uno dei fondatori del Club Amici dell’Atalanta del paese, insieme al Carlo Passera, al Maffioletti e ad altri: il giorno prima di lasciare questa terra era andato a vedere la partita, per dire del suo attaccamento ai colori. Io ho messo piede per la prima volta allo stadio quando avevo cinque anni, ho sempre frequentato quella che adesso si chiama tribuna Creberg». Nerazzurro dentro – «Bergamasco, quindi atalantino, uno da maglia sudata più che da risultati a ogni costo» -, con amicizie importanti e durature nell’ambiente, tanto che durante la chiacchierata alla scrivania direzionale, cristallo in un ufficio più bianco del purgatorio, ci scappa pure la chiamata vip a mo’ di promemoria per la gradazione: «Niente nomi, per me le amicizie non sono un paravento né un veicolo pubblicitario – ammonisce Foppa -. Casomai è il calcio a essere un veicolo per i rapporti umani, oltre quelli professionali. Foto, autografi e cimeli? Non fanno per me. Non vado nemmeno a fare il commentatore in televisione: non per snobismo, ma io faccio l’ottico, mica il mister». Basta già quello che c’è: «Il mio amico Giuseppe della Riviera di Ponente conosce il Gasp e lo idolatra, a me è piaciuto subito pur senza conoscerlo. La sua mano sulla squadra si vede, anche se nel mix dei meriti ci sono anche le doti dei giocatori e un po’ di buona sorte. Credevo in lui in estate e ci credo ora a maggior ragione: forse ho avuto la fortuna di saltare il periodo iniziale, dove si collezionavano sconfitte, perché ero ancora in vacanza. Io le faccio a settembre». Ed ecco che salta fuori l’amuleto-Gigi: «Sarà un caso, ma la prima partita vista è stata col Napoli in casa. Da lì è cominciata questa cavalcata verso l’Europa». L’amarcord scatta inevitabile: «La semifinale di ritorno in Coppa delle Coppe contro il Malines. Ero allo stadio, quarantamila persone stipate come sardine. Ma di quell’annata in serie B ricordo soprattutto la tripletta di Oliviero Garlini a Piacenza: sono passati trent’anni, ma quel gol in rovesciata non me lo dimenticherò mai».
Niente nomi, da figlio delle Orobie verace, per non riconoscersi nella figura del millantatore del vecchio proverbio chi no g’ha antadùr i se anta deperlùr, ma alla fin fine alla voce “idoli” c’è chi può farla più grossa del resto della truppa: «Scelgo due che venivano a giocare a calcetto con la nostra compagnia. Guai a chiedergli maglie o cimeli, il comune denominatore era ed è l’amicizia. Come calciatore Massimo Carrera, come allenatore Delneri». Uno che di nome fa Gigi, guarda che coincidenza. Ci sarebbe anche il ciclismo, da ragazzo, sotto l’egida dei mobili Giassi: «Lo sport che preferisco quando non gioco a pallone, anzi il primo che ho praticato». Da citare en passant, perché trofei e casacche non appartengono all’universo low profile made in BG: «Non cerco maglie, talora le compro all’asta di beneficenza. Se qualcuno me la regala magari la do al Club Amici di Grassobbio». Si capisce, l’ottico è l’ottico: non fa il mister e manco il collezionista. Il calcio a occhiali di Gigi Foppa.
Il calcio a occhiali di Gigi Foppa. Io e l’Atalanta, un amore sbocciato a 5 anni
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testo: Simone Fornoni
foto: Luca Limoli